sabato 9 febbraio 2013

HIDETOSHI NAGASAWA

  
Intervista a HIDETOSHI NAGASAWA
di Marta Casati



Incontro Nagasawa nel suo studio di Milano nella primavera 2007.


Nel 1967, dopo aver attraversato moltissimi Paesi e viaggiando per un anno e mezzo con una bicicletta dal Giappone all’Italia, si stabilì a Milano, dove il prezioso mezzo di trasporto le è stato rubato. È stato questo un segno troppo evidente per non essere ascoltato, tanto da indurla a restare a vivere qui?
Sì, è stato uno degli episodi che mi ha spinto a restare, anche se la bicicletta mi è stata rubata dopo qualche mese che ormai ero in Italia. Quando sono arrivato, passando dalla Grecia, la prima città in cui approdai scendendo dalla nave è stata Brindisi. Da lì sono risalito verso il nord, passando da Napoli, Roma, Firenze, vedendo moltissime meraviglie tra musei, chiese, monumenti. Più visitavo più restavo più affascinato e colpito dalla ricchezza culturale di questo Paese, fino quando giunsi a Milano e visitai la Pinacoteca di Brera. A quel punto non potevo più trattenere quel desiderio e mi dissi: «Non posso ripartire». Sentivo che mi dovevo soffermare, conoscere a fondo quello che avevo visto, la cultura italiana in generale. Così decisi di fermarmi per qualche anno. L’idea iniziale, quando partii dal Giappone, era quella di visitare l’Asia e il Medio Oriente in generale e così ho fatto. Ma quando sono arrivato qui intuii che dovevo assolutamente capire meglio la cultura di questo Paese. A Sesto San Giovanni c’era un quartiere di artisti e decisi di prendere lì il mio primo piccolo studio. È stato proprio allora che mi rubarono la bicicletta e pensai allora che quello fosse un buon motivo per rimanere. Da una parte ero contento per la scelta presa, dall’altro anche dispiaciuto per il furto che avevo subito.   

In quelli anni (in generale il decennio dei ’60) proprio a Milano ferveva un clima artistico vivace e dai forti stimoli concettuali. Si potrebbe parlare di un suo sodalizio artistico con artisti come Castellani, Fabro o Nigro?
Io entrai in contatto proprio con gli artisti che lei ha citato, oltre Tagliaferro, Bonalumi, o l’artista francese Tobas. Ognuno era connesso agli altri ma ognuno seguiva una ricerca diversa e realizzava opere differenti tra loro. A quel tempo Castellani era già famoso (avevo visto una sua mostra già in Giappone), come lo stesso Fontana, che però non ho conosciuto perché anche se è morto nel ’68 era già da prima era molto malato. Milano in quel periodo offriva numerosissimi stimoli culturali e l’arte contemporanea era in  primissimo piano, l’apertura al nuovo era totale. Il clima che si respirava era dei più vivi e gli artisti si sentivano parte di un gruppo molto forte. Io li conosciuti tutti e ogni sera, anche se eravamo poveri, facevamo feste alle quali ne giungevano molti altri da ogni parte di Italia, come Roma, Torino e altre ancora. Il fatto che io fossi arrivato proprio in quel periodo è stato determinante per la mia carriera artistica.

Passando a parlare della sua ricerca artistica, noto che l’emblema iconografico legato alla barca riveste un ruolo importante. Ci sono motivazioni precise che la spingono a lavorare su questa tematica e su i significati annessi?
Il lavoro connesso alla barca è nato istintivamente. La prima forma che ho realizzato è stata la piroga nel 1973 con il tronco in legno di castagno, poi in marmo e in ottone ricoperto di carta. Iniziai presto iniziai a chiedermi perché insistessi tanto su questo tema. Non esistono serie tra i miei lavori e mentre altre tematiche non erano ripetute, quello della barca tornava più volte. Se nella mia vita compariva così spesso questa immagine un motivo ci doveva pur essere. E infatti è così. Io sono nato a Nord della Cina, in Manciuria, da genitori giapponesi che si erano trasferiti lì per la professione di medico di mio padre. Durante il secondo conflitto mondiale io, con i due fratelli e mia madre fummo costretti a scappare verso il Giappone. Ci mettemmo in cammino insieme ad altre duecento persone, viaggiando quasi per anno intero.

Lei quanti anni aveva?
Avevo cinque anni ma ricordo tutto perfettamente. Il viaggio fu molto duro fino a quando arrivammo al porto dove avremmo dovuto imbarcarci per il Giappone. Ma le cose non andarono come speravamo perché non c’erano barche. Così ogni giorno stavamo lì ad invocare “barca, barca, barca”. Abbiamo aspettato circa due/tre mesi, poi finalmente siamo partiti. A destinazione, tra i duecento iniziali, siamo arrivati solo in cinque: io ero l’unico bambino, quattro gli adulti tra cui anche mia madre. Tutti gli altri, anche i miei fratelli, sono morti sia per fame che per malattia. Da allora la barca è sempre stato per me un simbolo importantissimo. Ricordo anche (allora avevo sette o otto anni) che c’era una zona in Giappone dedicata alla coltivazione del riso, una  risaia circondata da quattro fiumi. Intorno vi  costruirono un specie di diga, di cinta artificiale che impedisse – durante i lunghi acquazzoni nei periodi di pioggia – che divenisse un grande e unico lago. Spesso accadeva che i campi fossero allagati e il riso coltivato marcisse. Ogni famiglia di contadini che possedeva parte di quell’area teneva in casa, appesa al soffitto, una barca che veniva usata in caso di allagamento. Io ricordo l’incredibile bellezza provata di fronte a questo lago ma anche, dall’altra parte, la profonda tristezza negli occhi dei contadini che mai avrebbero voluto usare la barca. Significava che il riso ormai era marcito e non sarebbe stato più utilizzabile. 

Un altro aspetto determinante della sua produzione artistica è costituita dai giardini. Queste creazioni si inseriscono sempre in contesti naturali o sono realizzati adeguandosi, di volta in volta, alla cornice che li deve ospitare?
I giardini che ho realizzato hanno ognuno una storia diversa. A Certaldo, ad esempio, è stato il Sindaco che mi ha chiesto di realizzarne uno. Il Comune è infatti gemellato con la città giapponese di Kanra_Machi che nel 1990 ha donato la Casa del Thè davanti a Palazzo Pretorio. Per realizzarlo la cittadina giapponese ha inviato un’intera nave con tutti i materiali necessari e, addirittura, gli artigiani che l’avrebbero costruita. La Casa del Thè per molti anni è stata senza un giardino che ne circondasse la struttura, così animali domestici come galline e maiali hanno potuto circolare intono liberi, senza che ci fosse un adeguato luogo che la tutelasse. Quando mi è stato chiesto di realizzare il mio giardino, ho subito comunicato che non volevo realizzare un giardino giapponese.

Il perché della sua scelta?
Vede sono ormai più di duecento anni che in Giappone non esiste più il concetto di giardino come opera d’arte come invece esisteva un tempo. Prima i giardini erano realizzati da artisti e avevano un significato ben preciso. Non c’erano giardinieri o architetti che come adesso cercano di copiare le fattezze originarie. Adesso si è del tutto perduto il valore di giardino come frutto d’arte e si è persa la qualità dell’opera. A Certaldo volevo realizzare il mio giardino come fosse un’opera vera e propria. 

E così è stato?
Sì, anche se ho dovuto aspettare quattro anni prima che la Sopraintendenza ai Beni Culturali di Firenze approvasse il progetto. Poi finalmente è stato appreso il valore di un’operazione di questo tipo.

Ritiene che oggi la scultura trovi nell’arte contemporanea uno spazio adeguato, il giusto riconoscimento o, piuttosto, la questione non risiede nella quantità piuttosto nella qualità con la quale l’espressione scultorea  è presentata?
Credo che quello che più conti sia la qualità. La scultura continuerà sempre ad esistere, continuerà ad essere realizzata dagli artisti. Quello che cambieranno, come è giusto che sia, saranno le tecniche e  le materie di realizzazione, progredendo verso fronti nuovi. La scultura resterà perché è forma viva.

Una componente predominante delle sue opere è la semplicità, presentata con forza asciutta e prorompente. Crede che questa risieda ovunque (basta solo saperla cogliere) o chi è in grado di cogliere davvero la semplicità non dovrà mai sforzarsi di cercarla?
Credo che quello che conti sia la qualità delle idee. La semplicità è un aspetto connesso. Noi artisti cerchiamo di togliere quanto sia superfluo e in aggiunta rispetto all’idea originaria. Togliamo, togliamo, togliamo fino a quando resta solo l’idea nella sua forma più pura. Non cerchiamo mai di aggiungere, bensì di portare via. Il nostro lavoro è per metà di ricerca verso quella che è l’idea  - che deve essere ben chiara perché non esiste lavoro che non si fonda su un’idea precisa - e, per l’altra metà, di ricerca della tecnica – che sarà più compatibile possibile all’idea, altrimenti la qualità stessa ne sarà danneggiata.  

Uno dei suoi giardini, «Il giardino di Ebe» (2001), ha le sembianze di un  labirinto. In questa opera è stata prevista la via di uscita?
Sì perché in fondo è una costruzione molto semplice. «Il giardino di Ebe» è stato realizzata a Brisighella, vicino a Faenza, un paese di solo settecento persone ma con ben ventisette ristoranti. Questo aspetto mi ha colpito molto, perchè la qualità delle ristorazione lì è molto alta. Un altro aspetto curioso è che vi sono nati ben nove cardinali di cui due ancora oggi viventi. Prima di realizzare l’opera, mi sono recato a visitare il luogo e le idee che vennero in mente mi erano due o tre. Quella che poi ho scelto è stata la costruzione di una struttura di circa nove metri per sette, composta da due stanze incastrate. Sono così sorte tre stanze ma per capirne bene la composizione occorre osservarla dall’alto. Nei tre spazi ho poi aperto un passaggio con quattro diverse entrate. Il mio obiettivo era quello di creare un giardino[1] della durata di solo tre mesi, il periodo prefissato per la mostra.

Non è stato alla fine così?
No, perché l’opera è piaciuta talmente tanto che gli stessi abitanti si sono opposti alla sua demolizione. È stato strano perché spesso ci si scontra con una sorta di reticenza e di chiusura nei confronti delle installazioni pubbliche dell’ arte contemporanea. In questo caso – l’opera tra l’altro si trova di fronte all’entrata principale della Chiesa di San Francesco - è stato l’opposto. Anche il nuovo cardinale, che nel frattempo era stato nominato, ha insistito perché «Il giardino di Ebe» restasse stabile. Così anch’io sono stato consenziente, ottenendo dal sindaco che fosse garantito anche il servizio di pulitura e costante manutenzione.

I luoghi che crea raggiungono una sospensione rappresa, distaccata, contemplativa: in questa operazione percettiva che ruolo riveste l’associazione emotiva condotta dallo spettatore?
Gli spettatori sono fondamentali. Gli spettatori sono di tantissime diverse tipologie. Mettiamo che per ogni mostra arrivano mille persone. Tra queste tante mi chiedono: «Cosa significa la sua opera?». Di fronte a questa domanda spesso mi trovo spesso in imbarazzo perché magari vi è racchiusa la ricerca di un intero anno di lavoro. Capita poi che, tra queste mille persone, sette o otto persone più volte tornano a vistare l’opera, studiandone ogni minimo dettaglio e cercando di trovare delle risposte. L’arte contemporanea non è semplice e spesso è difficile entrarci in contatto: occorre prima prepararsi e conoscere.

Che ruolo riveste il titolo?
Io cerco sempre un titolo, che poi affido al lavoro dopo averlo realizzato. Il titolo è il punto di unione tra l’artista, l’opera e lo spettatore. Molti credono che sia la spiegazione dell’opera ma non è così. Le risposte sono lì contenute ma devono essere trovate dallo spettatore. 

Durante una intervista lei ha affermato: “Le culture tra Giappone e Europa sono talmente differenti. Certo, diverse, ma il viaggio mi è stato utilissimo per mostrare che non sono poi così diametralmente opposte”. Mi direbbe qualche caratteristica o un aggettivo che sia  in comune per l’Oriente così come per l’Occidente?
Io vivo in Italia da quaranta anni. Ho potuto vivere in due Paesi diversissimi tra loro, così come tutti sanno. Ma in questa diversità ho voluto cercare i punti che potessero essere comune alle due realtà. E ne ho trovati anche di sconvolgenti, come nella loro storia ad esempio. Circa centoventi anni fa, il Giappone ha avuto un personaggio rivoluzionario, Sakamoto Ryoma, che è riuscito a portare il Paese all’unione, mentre prima c’era solo la somma di tanti piccoli diversi e distaccati Regni, proprio come qui ha fatto Giuseppe Garibaldi. Lo stesso vale per il periodo del Medioevo: gli eventi trascorsi in quei secoli sono molto simili tra Occidente e Giappone. Per non parlare dell’arte. Nel 1400 qui nasceva Beato Angelico: io per ammirarne le opere ogni vota che vado a Firenze mi reco nel Convento di San Marco. In Giappone, proprio negli stessi anni, nasceva un altro grande artista Sesshu, importantissimo pittore, un anticipatore. Tra l’altro anche il periodo di produzione tra i due è molto simile. Per non parlare, infine, dell’aspetto politico: entrambi siamo stati costretti ad appoggiare l’America nei periodi di guerra…

Attualmente la galleria Il Ponte di Firenze ospita una sua personale dal titolo «Interferenza». Qualche anticipazione su prossime mostre e progetti espositivi?
Per quanto riguarda il Giappone, già da qualche anno, sto organizzando una serie di mostre. Ognuna sarà ospitata in una città diversa (tra cui Osaka, Tokyo e altre ancora da stabilire) per un totale di cinque o sei musei coinvolti. Purtroppo un po’ come per l’Italia, anche il Giappone non sta attraversando un periodo roseo circa i finanziamenti da destinare alla cultura e all’arte contemporanea. Credo che occorrono ancora due anni prima che il progetto sia realizzato. In Italia invece il castello dell’Isola di Ischia, che ogni anno organizza una personale, ospiterà una mia mostra nella prossima estate. 

Abbiamo parlato di moti artisti, ma se le chiedessi di dirmi colui del quale osserva le opere con più profonda ammirazione….
Sicuramente Sesshu. Lo considero il mio grande maestro. Quello che credo però essere fondamentale è non permettere che il filo con il passato sia spezzato. Non dobbiamo permettere che, mai e poi mai, sia interrotto.



[1] Un giardino inteso come opera d’arte, come in origine erano i giardini giapponesi  (n.d.r.).

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